A tutta Birba

Gli immortali.

By 16 Gennaio 2013 Gennaio 29th, 2016 No Comments

Quando si è piccoli, quando ci si affaccia al mondo, ci sono alcune persone che ti attraversano la vita e ti lasciano dentro una traccia indelebile. Con le loro idee, con il loro sapere, con la loro esperienza.

Marina De Mas era una di queste.

Una donna tutta d’un pezzo, con un vocione terribile e una altrettanto terribile modalità educativa.

Vestiva tailleur dai colori inquietanti (rosso fuoco, verde ramarro e blu elettrico erano fra i suoi prediletti), che abbinava ad arte ai suoi gioielli e ai suoi foulard.

Si muoveva fra i corridoi del mio Liceo con l’autorità regale propria di chi ha tanti anni di insegnamento sulle spalle, e quando passava da un’aula all’altra, annunciata dall’inconfondibile suono delle sue décolleté nere tacco 12, tutti noi ci alzavamo in piedi, muti, con la testa bassa in segno di rispetto, mentre lei avvolgeva le nostre narici con un profumo misto di mirra e sigaretta.

Nessuno sapeva la sua vera età.

Certo, non era più giovanissima, ma aveva quel portamento da Regina delle Amazzoni – lunga, magra, due spalle da pallanuotista, capelli lunghi e corvini che incorniciavano due occhi grandi, neri, profondi come il pozzo di san Patrizio – capace di intimorire qualsiasi studente che avesse avuto la colpa di essere invitato alla lavagna.

Insegnava Chimica e Biologia al triennio, due materie per me – che all’epoca volteggiavo fra l’esistenzialismo di Sartre e le versioni di Seneca – assolutamente fuori dal mondo.

Ciononostante, ha avuto il grande merito di sapermi inculcare nella zucca i princìpi della tavola degli elementi, le ossido-riduzioni e le reazioni organiche. E poi, la Legge dei gas perfetti, i principi di genetica di Watson e Crick, la reazione a catena della polimerasi…

Tutti fondamenti indispensabili per superare un esame di ammissione all’Università, sul passaggio del quale nessuno – io per prima – avrebbe scommesso un centesimo.

Ci siamo incontrate un’ultima volta per caso, in ospedale, nell’estate del 2008.

La sala d’attesa era stracolma e non c’era neanche una sedia libera.

Mi ero appoggiata alla colonna del tabellone elettronico, in attesa di un referto, incuriosita mio malgrado dal chiacchiericcio fitto delle comari intente a raccontarsi mille malanni, quando, ad un certo punto, lo sentii: quel superbo, inconfondibile rumore di tacchi in grado di superare la confusione da mercato del pesce che aveva invaso la stanza.

Mi girai appena in tempo: Lei mi stava passando di fianco come un treno in corsa, spostando l’aria intorno a sé.

Le toccai la spalla: “Professoressa!”.

Lei si girò senza togliersi gli occhiali scuri, comme d’habitude. Furono i soliti convenevoli – “ma che sorpresa, e cosa fai adesso, che grande che sei diventata, lei invece è sempre uguale Prof, passerò a trovarla a scuola, si dai, passa che facciamo quattro chiacchere, ciao bella, stammi bene”….

Io, da allora, non sono più passata a trovarla.

E’ stato il tempo a passare.

 

Marina De Mas è volata in cielo sabato scorso, il 12 Gennaio, dopo – credo – una lunga malattia.

L’ho saputo ieri, e la notizia mi ha procurato un dolore forte, inspiegabile, che non ero preparata ad affrontare.

Perciò, oggi, voglio ricordarla qui.

Per rendere omaggio non solo a una grande insegnante, ma anche a una persona che, all’interno del suo ruolo, ha saputo dare a un’adolescente impreparata e inquieta il senso della misura e della responsabilità, mettendomi sulle spalle una zavorra didattica indispensabile – a suo modo di vedere – per non farmi  troppo male quando decidevo di volare nel blu dipinto di blu.

Marina De Mas ha fatto, e continuerà a far parte, di quel circolo di persone che a colpi di 4, pacche sulle spalle e qualche sano “vaffanculo”, ti insegnano a vivere la vita, e che mai, mai pensi che potrebbero essere toccate dalla morte.

Gli immortali che ognuno di noi porta nel cuore.

 Ciao, Prof.