La famiglia Birba

…AMARCORD

By 15 Dicembre 2012 Gennaio 29th, 2016 One Comment

Questa è la storia vera della nascita del mio primo figlio. Vi dico già che il racconto si interromperà sul più bello… ma niente paura, non lascio mai le cose a metà. Buona lettura! D.

Chiudo un attimo gli occhi e mi rivedo.

E’ come un film che comincia, è come un romanzo.

E’ come un tatuaggio di immagini e parole impresse nella testa, nella pelle, nel cuore.

Eccomi là.

Sono io, in un giorno di fine agosto del 2009.

Sono lì, nel nostro letto.

Fuori fa caldo, sento i grilli cantare alla luna nonostante le finestre chiuse; con buona pace dell’aria condizionata, io sono in un bagno di sudore: il ronzio dell’aria fresca che tenta di darmi sollievo in realtà è come un enorme moscone che mi vola intorno alla testa.

E intorno alle gambe.

Già, mi fanno male le gambe.

E anche lo stomaco.

E anche la testa.

“Uffa…”

Lo dico sottovoce, Lorenzo sta dormendo.

E’ l’una di notte, e io… io non riesco, non riesco a dormire.

[…]

24 agosto 2009 – flashback.

Mentre io ero incinta da 40 settimane esatte, Riccardo dal canto suo non ne voleva sapere di nascere. E questo contrariamente a quanto pronosticato da tutti i medici del Reparto che avevano puntato sullo scodellamento già verso fine Luglio: “Così lungo e grosso… e il collo (dell’utero) si è già un po’ aperto. Vedrà che ai primi di Agosto sarà già a casa col pupo in braccio”.

Ci avevo creduto: d’altra parte la mia panza era gigantesca, non mi vedevo la punta dei piedi dalla fine di Maggio.

Tuttavia, Riccardo era destinato ad essere un bastian contrario prima ancora di nascere: decideva tutto lui. Ce l’aveva detto anche l’ostetrica al primo monitoraggio delle gravidanze a termine, proprio nel giorno in cui  il nostro primogenito  – arrivato come un dono celeste inaspettato, dopo che i maggiori luminari col camice bianco ci avevano dato picche, a riguardo – avrebbe dovuto nascere.

Io ero disperata: stanca, sfinita, spossata dall’attesa e da quel torello che mi portavo in grembo.

Durante la visita, l’ostetrica mi aveva rassicurata, con quel modo rude, pratico, ma benevolo, che hanno le donne che hanno visto tanti bimbi venire alla luce, mentre io ero assolutamente convinta della mia incapacità di mettere al mondo figli.

[…]

24 agosto – Ospedale, ambulatorio gravidanze a termine.

Il gel è freddo, e la sonda mi schiaccia il pancione. Stringo i denti.

Lei osserva il monitor, un vortice di nero bianco e grigio. Sorride senza guardarmi, se n’è accorta: “Tranquilla e rilassata… è il primo, signora?”

“Sì…”

“E’ maschio…?”

“Sì…”

UHUH! E allora… se la metta via… i maschi son grandi pigroni… vedrà che andremo fuori termine…”.

“CoMe-CoMe-CoMe? Fuori termine?”

“Ah, ma non si agiti… per me, può partorire anche fra un ‘ora, ma glielo dico: stia tranquilla e si metta il cuore in pace. Non dipende da lei quando far iniziare le danze… dipende dal piccolo. Adesso è lui che decide. Vero, pisellino?” ridacchia bonaria, mentre la sonda trasmette a video l’immagine sfocata dell’intimità del mio piccolino. “Proprio un gran bel maschietto!” conclude.

Passai il 24 agosto chiusa in casa piangendo come un’oca.

Lorenzo mi asciugò le lacrime, mi diede colpetti sulla schiena, e mi soffiò pure il naso, nel vano tentativo di  riportarmi alla realtà.

Eroicamente portò pazienza per un’ora. Due ore. Tre ore.

Alla fine, disorientato dalle mie continue lamentele, si alzò dalla sedia e mi guardò con pietà infinita: “ti do cinque minuti” sibilò con una voce che non ammetteva repliche “cambiati immediatamente e smettila di piangere. Andiamo a fare due passi”.

Quel giorno l’aria era fresca: in montagna aveva piovuto (“la pioggia di agosto – rinfresca il bosco”) e il vento aveva portato un po’ d’ossigeno anche in pianura.

Così mi portò al parco, e mentre mi trascinavo sul vialetto sterrato, di nascosto fotografò artisticamente il mio pancione di profilo.  Uno dei ricordi più belli di quel periodo turbolento.

Il sole era basso, e la mia ombra a terra sembrava quella di un enorme cono gelato. Mi tornò voglia di piangere. Lorenzo mi anticipò:

“Non ci provare!”.

“Ma non ci riesco!” provai a giustificarmi “…sono gli ormoni!”

“Ormoni un c*…! Piantala di frignare. E’ una giornata bellissima e stiamo per abbracciare nostro figlio. E’ la cosa più miracolosa che poteva succederci, e tu non devi, NON DEVI PERMETTERTI di piangere.”

[…]

25 agosto – a casa.

Di nuovo un’ondata di scirocco.

Quel giorno il sudore era appiccicoso, come la colla mischiata al miele.

Mi passavo il ghiaccio sul collo e sulla fronte, mentre cucinavo l’insalata di pesce e – contemporaneamente  pulivo il frigorifero “di fondo”.

SFOGO COMPULSIVO DI UNA PANCIUTA DESPERATE HOUSEWIFE.

Risultato: la casa era un disastro, ma gli spiedini di gamberoni e moscardini erano venuti una meraviglia.

Cenammo in terrazzo con le candele accese, come quando eravamo fidanzati, guardando le stelle, mentre dalla cucina proveniva l’odore del brodo di cernia con un sottofondo di candeggina.

Quella sera andai a dormire, stanca e rassegnata, raccomandandomi a Dio e alla creatura: “non farmi scherzi proprio stanotte, domani devo passare l’aspirapolvere e lavare per terra…”.

Arrivarono le 23.

Poi mezzanotte.

Non ero tranquilla, c’era qualcosa che non andava.

Mi rigirai nel letto, lentamente, non riuscivo quasi più a muovermi. Guardai Lorenzo, nel buio, dormiva.

Invidia.

EcChEcCaVoLo… Provai ad andare a far pipì. Tutto tranquillo.

Ma proprio mentre stavo tornando a letto, un brontolone preistorico mi percosse l’ombelico. Un ruggito, come se qualcuno mi avesse preso per i fianchi per girarmi la pancia.

La pelle ancora tremava. Feci appena in tempo a sedermi sul letto, e in quel momento una stanchezza incredibile, da maratoneta alla fine della corsa, mi avvolse le gambe, le braccia, la testa… così crollai distesa sul materasso, finalmente addormentata.

Ma non durò per molto.

[…]

 26 agosto. Ore 03.15 AM

Apro gli occhi e guardo la sveglia. Il fastidio in basso aumenta, come se qualcuno mi  stesse pizzicando la pelle, tutt’intorno. Ho la bocca impastata. Torniamo in bagno, vediamo se…

Se…

Ecco. Si comincia. Perdite.

Piccole piccole.

E la sensazione di essere in vista del capolinea che diventa una certezza.

Misto di euforia, paura, tranquillità. Un sorriso ebete si dipinge sul mio viso mentre mi rivesto e vado a svegliare Lorenzo.

Amore… aMoRe? PAPINOOO!?!?!??” – lo chiamavo così per abituarlo all’idea.

“Mmmhh… sgrunf…?!”

“Lorenzo, amore… svegliati… è ora…”

“Ohm… ma è già mattina? E la sveglia?”

“Ma che sveglia, papino! E’ ora che andiamo…”

Ora, sarò sincera: Lorenzo che si lancia giù dal letto con un triplo salto carpiato è una scena che, voglia il Signore, spero di non vedere mai più. E non per il gesto atletico in sé, assolutamente perfetto, quanto per il rischio di frantumarsi il cranio contro il primo spigolo del comodino.

Agitatissimo, accende la luce strattonando l’interruttore. L’abat-jour gli cade sul mignolino: “OMMIODDIOOOO! Stai calma! Penso a tutto io! Eh! Ma non farlo qui… stai calmaaaa!!!!!!”

“Ma stai calmo tu! Sei completamente impazzito? Va tutto bene! Dai, in ospedale mi avevano detto che se le cose cominciavano così, dovevamo chiamare in reparto, così ci davano delle indicazioni… telefona te che io forse devo tornare al bagno… mi farò una doccia…”

“Una doccia? E… E se lo fai in vasca?”

“Lorenzo, ti prego… va tutto bene, ma credo che ci siamo. Insomma, chiama, vediamo che ci dicono”.

Lo sento pregare sottovoce mentre fa il numero. Mi fa tenerezza… lui, sempre così equilibrato. Lui che non alza mai la voce. Adesso invece è, e giustamente, in crisi nera. E’ la seconda volta da quando lo conosco che è così impanicato… la prima volta, fu davanti all’altare… un’altra storia.

Passi veloci, apre la porta del bagno, mi bussa sul vetro della doccia: “Vogliono che parli tu, non hanno capito niente di quello che ho detto io …”.

E ti pareva…

“Buonasera. Anzi, buonanotte. Sisì, sto bene… fuori termine da due giorni. Primo figlio, sì. Qualche perditina, niente di che… Contrazioni? Boh, non mi pare… doloretti, ma in teoria dovrebbero essere molto più… eh, infatti. Va bene, veniamo su.”

Lorenzo è rimasto lì a guardarmi con le spalle appoggiate al muro. “Che dicono?”

“Che se non ci sono contrazioni non c’è fretta… più che altro, vogliono capire come sono queste perdite. Allora, adesso mi asciugo, ci vestiamo e andiamo… oh… andiam… andiamo su…uh…uh… e facciamo un… un… un monitora…. aaaAAAAAAHhhhhhHHhhhhhHHHHHHhhhh!!!”

Una contrazione. La prima. Vera.

Quaranta secondi di dolore che ti toglie il respiro, ti taglia in due, ti piega senza farti rialzare. Quei quaranta secondi in cui capisci che finisce una vita – la tua vita da ragazza, le serate fuori, il cinemino al giovedì sera. E le cenette al lume di candela, i corsi a Roma e a Milano, le visite al Museo dei Carraresi sulle retrospettive dei pittori impressionisti, i pomeriggi sul terrazzo della Feltrinelli alla presentazione dell’ultimo libro di Niccolò Ammaniti…

Inizio a morire, per rinascere con una vita nuova.

Una nuova me.

Un nuovo “noi”.

Poco tempo per la poesia. Ne arriva subito un’altra.

Sono rapide, regolari, un fiume in piena.

Lorenzo goffamente cerca di capire. Si avvicina e cerca di tenermi in piedi. Lo spingo via malamente, mi viene da urlare.

[…]

26 agosto 2009 – ore 05.08 AM

Fotogrammi indistinti nel viaggio in ospedale.

Il mio respiro si accorcia, ho mille luci colorate che ballano davanti agli occhi.

Lorenzo guarda me e la strada, sento la sua mano ghiacciata che stringe la mia.

“Dai, amore, dai, siamo quasi arrivati…”.

Chiudo gli occhi. Ricordo solo suoni – la sbarra del viale d’ingresso dell’ospedale si alza – e odori – il profumo della lavanda delle aiuole, l’odore di disinfettante della corsia.

Quando arriviamo in Reparto sono piegata in due, mi tremano le gambe, e ho bisogno di spingere.

Di corsa mi visitano, in quello si rompono le acque (infinita vergogna, ho allagato il lettino…): l’ostetrica fa chiamare il medico, siamo già a 8 cm.

Io non ce la faccio più. O meglio faccio solo in tempo a guardare l’orologio: sono le 5 e mezza del mattino, e sto per svenire. Sto per morire. E infatti lo dico:

“Lorenzo… basta, basta, aiutami, non ce la faccio più… Lorenzo… ho sete, ho sete… ” sussurro.

Poi è solo buio e un vuoto di memoria.

Mi sveglio poco dopo, sono in un’altra stanza. Lorenzo è vicino a me. Mi fa male il braccio, mi hanno messa sotto glucosata.

Ho il monitoraggio sulla pancia.

L’ostetrica mi ripete che va tutto bene: “Respira. Concentrati. Sei bravissima. Forza…”

Ma in quel momento, tutti si fermano, sospesi.

L’ostetrica strabuzza gli occhi. Guarda la mia pancia. Guarda il monitor.

“Oh Gesù Cristo… ma com’è possibile?!” esclama.

Chiama la collega a gran voce. Non viene nessuno. Allora si alza, corre in corridoio. Richiama gridando. Il medico è in sala parto, le rispondono, arriva solo un’altra ostetrica.

Lorenzo sbianca, chiede che succede.

Io non ho voce, non so più dove sono, e in quello mi rendo conto di sentire due battiti.

Le ostetriche si guardano: abbozzano un “No, dai, ma come xe possibìe?”.

Provano a spostare le placche. L’elastico viene tirato a forza, mi brucia la pelle del fianco.

Ancora due battiti.

“Porta l’altro!” ordina la prima alla collega.

Tolgono le cinghie, mi viene applicato un altro apparecchio.

Non cambia niente.

Due battiti. Ci sono due battiti.

Quello di un cavallo al galoppo e un altro, più tenue… più lento.

Il battito flebile di qualcuno che sta soffrendo.

60 battiti al minuto. 54 battiti al minuto. Dentro di me.

Poi, ricordi confusi. Un camice azzurro che entra di corsa, voci concitate. Arriva una barella, sento il viso di Lorenzo è sul mio: non so se sono le mie o le sue lacrime che mi bagnano le guance.

Faccio in tempo a chiedergli “sto per morire, vero?” ma la sua risposta è già lontana.

Così, lentamente, chiudo gli occhi, mentre qualcuno mi solleva di peso.

Sono quasi le 7 del mattino… ho freddo, ho paura, e c’è solo buio intorno a me.

(to be continued)

Join the discussion One Comment

  • Franca ha detto:

    Ma nooooooooooooooooooo… stanotte non dormirò pensando al seguito… d’ora in poi ti chiamerò CRUDELIA… io non posso non dormire, il mio equilibrio è leggermente instabile e quando qualcosa di non ben definito comincia a martellarmi in testa non và più via finchè non l’ho risolto dentro o fuori di me… voglio il seguito SUBITO ADESSO NOW… please…